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    Lecito licenziare chi usa gli accounts ed i mezzi di comunicazione aziendali per fini privati.

    14/01/2016

    Avv.

    Notizia tratta dal sito: Diritto e Giustizia.it./ Autore: Giulia Milizia

     

    La CEDU ribadisce che, anche a livello europeo, rientra nel potere disciplinare del datore accedere alle comunicazioni personali, effettuate tramite i mezzi di comunicazione aziendali (mail, internet, telefono, social networks etc.), dato che ha il diritto/dovere di garantire il corretto funzionamento della società e di controllare che i dipendenti svolgano le loro attività. In presenza di un espresso divieto e se tali messaggi privati sono acquisiti agli atti processuali non si potrà invocare una deroga alla privacy ex art. 8 Cedu e Direttiva 95/46/CE.

     

    È quanto sancito dalla CEDU sez. IV nel caso Barbulescu c. Romania (ric. 61496/08) che fornisce le linee guida per risolvere questo annoso problema: il lavoratore può avere una vita sociale ma senza usare i mezzi aziendali e a discapito del suo lavoro (contra opinione dissenziente del giudice Pinto Albuquerque in calce alla sentenza annotata). Inserito nei factsheets: New technologies e work-related rights.
    Il caso. Un ingegnere responsabile alle vendite di una società privata, su ordine del datore, creò un account aziendale su Yahoo Messanger per gestire le richieste dei clienti. Secondo il codice etico interno, consegnatogli alla firma del contratto d’assunzione, era «severamente vietato disturbare l'ordine e la disciplina all'interno dell'azienda e soprattutto... l’uso di computer, telefoni, fotocopiatrici, fax e di telex per scopi personali». Durante i controlli di routine il datore rilevò un numero eccessivo di records privati scambiati con la fidanzata ed il fratello (45 pagine dal 5 al 13/7/13). Glieli contestò avviando la procedura di licenziamento disciplinare. Il ricorrente lo impugnò, contestando una violazione, anche da un punto di vista penale, della sua corrispondenza privata, ma in prime cure ed in appello le Corti interne lo giudicarono lecito per la violazione dei suoi doveri professionali: il monitoraggio delle mail e delle altre comunicazioni da parte del datore, ai sensi della Direttiva 95/46/CE, non solo era ragionevole, in un contesto di una procedura disciplinare, ma era anche l’unico modo per dimostrarla.

    Quadro normativo. La tutela dei dati personali e la loro trasmissione è regolata anche dalla Convenzione del COE del 1981. L’UE, per far fronte ai problemi della tutela della privacy sui luoghi di lavoro ed alle relative implicazioni di detta sorveglianza per il datore e per l’impiegato, ha istituito, ex art. 29 D.95/46, un gruppo di monitoraggio, id est un organo consultivo indipendente. Nel suo Parere n.8/01 chiarisce che «il monitoraggio deve essere una risposta proporzionata dei rischi subiti dal datore nel rispetto della privacy e degli altri interessi legittimi dei lavoratori». Per essere lecito l’accesso alle comunicazioni deve rispettare alcuni principi fondamentali: «finalità, trasparenza, legittimità, proporzionalità, precisione, sicurezza e personale consapevolezza». Ciò è meglio esplicato nel Documento di lavoro sulla sorveglianza ed il monitoraggio delle comunicazioni sul posto di lavoro del maggio 2002. Per essere leciti devono superare quattro test: trasparenza, necessità, equità e proporzionalità. Da un punto di vista tecnico ciò si ricava «dalle informazioni dei software (pop-up, finestre di avviso etc.) e dagli avvisi di sistema sul fatto che il lavoratore abbia rilevato ed/od impedito un uso non autorizzato della rete aziendale». Inoltre chiarisce che «l’apertura della posta elettronica di un dipendente può anche essere necessaria per ragioni diverse dal monitoraggio o dalla sorveglianza, ad esempio per mantenere la corrispondenza nel caso in cui il dipendente si trovi fuori sede (malattia o congedo) e la corrispondenza non può essere altrimenti garantita (per esempio tramite un autoreply od inoltro automatico)». La CEDU rileva come la mail siano assimilabile all’istant messanger del nostro caso: l’unica differenza è l’assenza dell’oggetto del messaggio.

    Ed in Italia? L’art.4 l. n. 300/70, il Job Act e la giurisprudenza costante concordano sulla liceità di tali controlli: questi mezzi di comunicazione sono strumenti di lavoro, perciò l’indirizzo personale non implica che sia privato, dato che devono essere usati solo per lo svolgimento delle attività professionali (Trib. Milano ord.10/5/02, Cass. 4647/02, 47096/07 e sez. lav. 2722/12). Sul punto il Garante della privacy ha dettato specifiche linee guida nella delibera n.13/07.

    Lavoratore avvisato… correttamente controllato e licenziato. Il campo di applicazione dell’art. 8 CEDU è molto ampio, essendo volto a tutelare la privacy e la corrispondenza da ogni interferenza, anche statale, che non sia prevista dalla legge o prevedibile (Yuditskaya ed altri c.Russia nella rassegna del 13/2/15). Lo stesso vale per i criteri per ravvisare l’equo bilanciamento degli interessi confliggenti, dato che si deve vagliare il rispetto della Cedu e degli interessi pubblici, pur tenendo conto del margine di discrezionalità dei singoli Stati (Von Hannover c. Germania n.2 [GC] del 2012 e Jenuesse c. Olanda [GC] del 3/10/14). L’art.8 risulta violato solo se questo divieto non è stato espressamente comunicato al lavoratore che ha una ragionevole aspettativa che nessuno acceda alla sua corrispondenza personale (Niemietz c. Germania del 16/12/92). Nella fattispecie le autorità interne non hanno compiuto alcuna illecita interferenza ed il bilanciamento degli interessi è stato equo per quanto sopra esplicato. Inoltre il controllo era stato limitato solo a questi messaggi personali, senza vagliare altri documenti sul suo pc, per altro divenuti di dominio pubblico perché acquisiti dal g.i. agli atti dell’impugnazione del licenziamento: da essi sono palesi i potenziali danni per il datore dovuti allo spreco di tempo, influente anche sul rendimento generale dei colleghi. Si noti che la CEDU ha ritenuto leciti questi controlli anche quando le attività lesive degli interessi del datore, perché contrarie ai doveri d’ufficio, erano svolte al di fuori dell’orario o della sede lavorativa (Kopke c. Germania del 5/10/10 e Pay contro UK del 16/9/08).

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